Pubblicato sul mensile MICROPOLIS di settembre
Non ha tutti i torti Marcello Marcellini, autore de I Giustizieri. 1944:la brigata “Gramsci” tra Umbria e Lazio, a prendersela con la puntuta recensione di Marco Venanzi pubblicata sul numero di luglio di “micropolis”. Venanzi infatti polemizza con l’autore come se la sua opera fosse un saggio storico. Leggendolo e rileggendolo, invece, l’impressione che se ne ha è quella di un libro che racconta non la storia, ma una storia. Insomma Marcellini ha scritto una sorta di romanzo storico a tesi: i partigiani, o almeno alcuni di loro, erano dei sanguinari con il gusto di uccidere, quelli che essi giustiziavano non erano fascisti, la magistratura era prona al potere comunista e via dicendo. Insomma è come se uno volesse studiare il Seicento francese leggendo (absit iniuria verbis) i romanzi di Dumas padre o il Medioevo inglese attraverso Ivanhoe di Walter Scott. Detto questo ci si consenta di dire che il libro di Marcellini è un “romanzo” che gioca sui toni forti, una sorta di thriller sanguinolento, con effettacci, compresa la concessione all’odierno spirito animalista (l’uccisione a coltellate e a colpi di calcio di moschetto, come il suo padrone, di Tania, la cagnetta di Centofanti). Oggi si pubblica tanta robaccia e non è un libro più o meno brutto che fa la differenza, quello che merita qualche risposta non è quindi Marcellini, quanto i suoi esegeti ed apologisti, che gli riconoscono il ruolo di storico di vaglio e ricercatore obiettivo. Fino a quando questo avviene su siti e riviste che fanno chiaro ai reduci della Rsi pazienza, quando però la questione tracima oltre questo ambito merita qualche chiarimento.
I fatti
Non è vero che gli eventi raccontati da Marcellini non fossero conosciuti e che siano stati portati alla ribalta dall’autore e dal compianto prof. Pirro. Quando i processi furono celebrati vennero fatte addirittura assemblee popolari, più recentemente ne ha parlato Sandro Portelli nel suo Biografia di una città, uscito nel 1985, infine - nel convegno organizzato in occasione del Cinquantesimo della liberazione - della violenza partigiana ha parlato, sia pure sommariamente, Gianfranco Canali. Si dirà che ad essi non è mai stato dedicato un libro ed è vero, ma è anche vero che ancora non esistono studi esaustivi sulla Resistenza in Umbria, sul fascismo e sull’antifascismo, sulla stessa brigata Gramsci, cose altrettanto importanti dei giustiziati nel ternano e nel reatino.
Le fonti
Gli archivi consultati da Marcellini non sono affatto segreti, ma sono consultabili da chiunque voglia. Marcellini sa, perché a volte li cita, che proprio a fianco delle buste da lui consultate a Roma, a Terni, a Rieti, a Perugia stanno decine di faldoni di processi a fascisti repubblicani che in molti casi vennero assolti dai reati loro ascritti, molto più gravi di quelli imputati ai partigiani della Gramsci. Lo diciamo non per rispondere “morto su morto”, quanto perché lavorando su fonti indiziarie, e da avvocato, Marcellini dovrebbe sapere che l’attendibilità dei testimoni ha una qualche rilevanza. Alcuni dei suoi “testi a carico” compaiono come imputati in altri processi e in qualche caso sono condannati. Per fare un esempio: che cosa avrebbe dovuto dichiarare al processo per i fatti di Morro Reatino, Di Marsciano, capo della provincia di Rieti, condannato all’ergastolo - pena convertita prima in trent’anni, poi in ventuno - ed infine amnistiato dopo pochi anni, se non di non essere al corrente dei fatti. Poteva compromettere le sue possibilità di uscire di galera?
I processi e la natura dei reati.
I reati ascritti ai partigiani erano stati ritenuti, subito dopo la guerra, oggetto di amnistia. I processi di fine anni quaranta e inizi anni cinquanta vengono riaperti con un’imputazione diversa. I familiari dei giustiziati sostengono che non si era trattato di morti legate a contrasto politico, quanto di reati commessi a scopo di rapina. Insomma le vittime sarebbero state uccise per derubarle dei loro averi. Marcellini riprende questa accusa infamante sia nel libro che nell’intervista di risposta a Venanzi. I giustiziati venivano prelevati “dalle loro abitazioni che venivano con l’occasione sistematicamente saccheggiate”. Da questa accusa vennero assolti gli imputati e non tanto da quella di aver ucciso i fascisti in questione.
Rappresaglie e controrappresaglie
Vi sono altre due questioni che merita di sottolineare. La prima è quello della definizione di rappresaglia e controrappresaglia. Alla domanda del giornalista de “Il Giornale dell’Umbria” nell’intervista del 31 agosto se le azioni dei partigiani siano definibili, come sostiene Venanzi, controrappresaglie, Marcellini risponde: “La tesi non è sostenibile. Una controrappresaglia avrebbe avuto un senso se fosse stata operata contro gli stessi tedeschi e non contro singoli fascisti o presunti collaborazionisti che se ne stavano nelle loro case in attesa dell’imminente, e ormai certa, fina della guerra” e aggiunge che l’operazione fatta dai partigiani è di “controterrore” per riprendere il controllo del territorio. Ora sul concetto di rappresaglia e controrappresaglia nell’ultimo quindicennio sono stati versati fiumi di inchiostro, si veda a proposito per tutti quanto scrive Claudio Pavone nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza ( pp. 475-492) che dà una definizione equilibrata di entrambi i concetti: come la rappresaglia è un atto di terrore per togliere ai “ribelli” l’appoggio della popolazione, così la controrappresaglia ha un valore uguale e contrario. Dove sarebbe l’errore di Venanzi? La seconda è più sottile. Perché le vittime sono fascisti e appartenenti all’apparato burocratico repressivo della Rsi? La questione va posta in relazione alla legittimità o meno d’un potere che pretende di avere, come ogni potere, il monopolio della violenza. Se si nega la sua legittimità è ovvio che non si ritiene legittima l’azione dei suoi rappresentati e che quindi li si colpisca, anche in modo violento.
Conclusioni d’obbligo
Come si vede le questioni sono meno semplici di quanto possa apparire e meritano ben altri apparati concettuali di quelli irenico moralistici che utilizza uno degli estimatori di Marcellini, Francesco Pallia, o di quelle granguignolesche dell’avvocato ternano. A Pullia può non essere inutile ricordare che, quando il pacifista e antifascista Capitini fu costretto a fuggire da Perugia, scelse di rifugiarsi presso la brigata Francesco Innamorati che operava sui monti vicini alla città, ove combattevano molti dei suoi allievi diventati nei primi anni Quaranta comunisti e che mai Capitini ha parlato di resistenti e di partigiani come di criminali.
C’è da aggiungere una conclusione d’obbligo. Il fatto che libri come quello di Marcellini abbiano corso e possano apparire come saggi storici, deriva anche dall’afonia e dagli errori – almeno nel caso ternano - di chi ritiene la Resistenza momento fondante della vicenda repubblicana. A lungo si è negato, da parte partigiana, il carattere di guerra civile della Resistenza, ritenendolo quasi infamante; d’altro canto gli storici per cautela o per pudore hanno ritenuto bene tenersi sulle generali, evitando di fare nome i cognomi, quasi per un eccesso di deontologia professionale. E’ ora invece di cominciare a fare a tutto tondo la storia di fascisti e resistenti, con i nomi e i cognomi dei responsabili delle stragi di parte repubblichina, dei processati, dei condannati, dei graziati (a proposito dello spirito paracomunista della magistratura!), senza nessun timore e falsa cautela. Infine c’è un tocco di volgarità o di assenza di stile cui merita rispondere. Il presidente dell’Isuc Mario Tosti scrive un articolo sui pericoli dell’altra storia? puntualmente su un blog orvietano compare un intervento che sostiene che l’Isuc è la voce storica della regione e che a ciò si deve l’intervento di Tosti, poco importa che sia uno stimato storico dell’Ateneo perugino. Marco Venanzi critica Marcellini? e che poteva fare? lavora all’Icsim, altra emanazione dei poteri locali (non conta che ne siano soci istituzioni ed enti che non hanno nulla a che vedere con la politica). Se applicassimo pedissequamente questa regola dovremmo dire che poiché Pullia, estimatore del libro, lavora alla Provincia di Terni, l’ente in questione appoggia le tesi di Marcellini. Infine qualcuno insinua, sia pure in modo sotterraneo, il dubbio che “micropolis” sia una sorta di “Pravda” regionale, organo del potere “comunista” in Umbria. Coloro che coltivano questo sospetto – si sa, la madre dei cretini è sempre incinta – mandino pure nome ed indirizzo, invieremo loro gratuitamente il giornale. Potranno rendersi conto di persona del nostro grado di “servilismo” nei confronti delle istituzioni e dei partiti della sinistra.
mercoledì 30 settembre 2009
Storia, storielle, storiacce - di Renato Covino
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1 commento:
Per quanto riguarda la madre dei cretini. Posso dire che leggendo il commento, e vedendo i soci dell'ICSIM e C., è lampante che i soci sono tutti attori politici. Se poi mi dimostrate che chi viene assunto da questi istituti para- pubblici è assunto con criteri di concorso pubblico, possiamo solo in quel caso paragonarli alla Provincia. La Provincia non ha pero' come attività primaria quella di diffondere il "sapere storico".Per cui il povero Pullia deve lavorare due volte una per essere un buon impiegato, l'altra per mantenere la sua dignità di uomo. Mi piacerebbe pero' avere la recensione di un soggetto terzo, che nulla ha a che fare con gli attori di questa disputa.
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