Si è affermata negli ultimi decenni una tendenza, che è politica, ideologica e anche storiografica, a riscrivere la storia dell'Italia con¬temporanea; numerosi sono stati i volumi editi che già nel titolo sottolineano questa volontà: l'altro Risorgimento, l'altra Resistenza, per ricor¬dare due degli eventi sui quali maggiormente si è concentrata l'attività di revisione storica. Un'altra storia, dunque, che spesso ha contribui¬to a portare alla luce verità lungamente negate ma altrettanto sovente ha messo in campo un uso politico della storia, fina¬lizzato a favorire un mutamento dell'im¬maginario storico e culturale dell'opinio¬ne pubblica. Tutto questo collocato sullo scenario presente, che sembra assegnare agli studi storici una sfida molto precisa: la trasformabilità della memoria e della storia in mercé dell'industria culturale. Siamo di fronte, infatti, a un mutamento di ordine, innanzitutto economico, che imprime un carattere bulimico e compulsorio a quello che noi chiamiamo “re¬visionismo”. Le verità acclarate e gene¬ralmente accertate e accertate, in sede storica, sono merci che diventano rapida¬mente obsolete nel mercato culturale. Non si vendono facilmente, anzi non si vendono più: occorre perciò manipolar¬le, renderle nuove, sensazionali, per tro¬var loro nuovi compratori. In questo sen¬so, un caso emblematico è rappresentato dai volumi di Giampaolo Pansa che con la sua scrittura suadente, con la sua chia¬rezza espositiva e un uso onesto delle fonti, è riuscito a portare al grande pub¬blico fatti che da sempre gli storici spe¬cialistici conoscevano, ma che la storio¬grafia ufficiale aveva omesso. Così il “giornalista-storico revisionista” è stato capace di rompere il silenzio, di riporta¬re alla ribalta dolori e sofferenze seppelli¬te e dimenticate, elevandosi al ruolo di vendicatore. Anche in Umbria, un certo autoritarismo culturale, ha fatto sì che, relativamente alla Resistenza e al ruolo dei partigiani, per lungo tempo, abbia prevalso una ricostruzione unilaterale, che ha privilegiato il mito rispetto alla storia. Convenienza e retorica hanno a volte sotterrato, insieme ai cadaveri, mol¬te scomode verità. Oggi, per fortuna, le cose sono diverse e tutta una serie di pubblicazioni, portate avanti anche dal¬l'Istituto per la storia dell'Umbria con¬temporanea, stanno mettendo in chiaro il ruolo militare della Resistenza, la composizione delle bande partigiane e l'apporto problematico degli slavi, fuggiti do¬po l'8 settembre 1943 dai campi di inter¬namento, come quello di Colfiorito, gli eccessi di alcune frange della lotta clan¬destina nei confronti della popolazione civile e dei fascisti repubblichini. Ora, affermato che il male è qualcosa di uma¬no che prescinde dagli schieramenti po¬stumi, il rischio concreto di chi si accinge, anche animato da serie intenzioni di “revisione”, a scrivere “un'altra storia” è quello alla fine di accomunare fascismo e antifascismo, considerandoli come op¬posti eccessi. Il risultato finale di tale operazione dì riscrittura è quello di aval¬lare un'interpretazione storica pacificatrice, per cui il carattere autentico del¬l'identità nazionale sarebbe rappresenta¬to da quella parte maggiore del popolo italiano che avrebbe assistito da estra¬neo, o con atteggiamenti di puro soccor¬so umanitario, agli eventi, in attesa del loro sviluppo. Secondo questa visione i combattenti sui due fronti, fascista e anti¬fascista, rappresenterebbero una devia¬zione estranea alla nostra tradizione, che resta essenzialmente moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e garantita dalla presenza stabilizzatrice di istituzioni secolari, come la Chiesa. All'antifascismo, alla Resistenza, quali fattori costitutivi delle istituzioni e della vita repubblicana, verrebbe così a sosti¬tuirsi la categoria dell'attendismo, virtù di saggezza pratica, invece che vizio di apatia, molto più conforme al genio proprio degli italiani, che sempre tra gli opposti eccessi hanno preferito procede¬re diritti. Certamente oggi l'idea di una guerra civile obbligatoria spaventa, ma allora era dettata dall'indignazione mora¬le; basta leggere, per esempio, le lettere dei condannanti a morte della Resisten¬za. Da esse emerge un'altra Italia. Un Paese di uomini e donne appartenenti a tutte le età e a ogni classe sociale, consa¬pevoli del dovere della libertà e del prez¬zo che essa in momenti estremi compor¬ta. Del resto, già nel 1947, uno dei più grandi scrittori del Novecento, Italo Calvino, nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, nel quale racconta pro¬babilmente la sua esperienza di venten¬ne che per sfuggire alla leva della Repub¬blica di Salo, insieme al fratello, sale in montagna ed entra nella seconda divisio¬ne d'assalto “Garibaldi”, rinuncia a qualsiasi tentazione di rappresentazione cele¬brativa e trionfalistica della Resistenza. I suoi protagonisti sono individui “margi¬nali”, talvolta “irregolari” e tutt'altro che contraddistinti da una “coscienza di clas¬se” o da una definita “coscienza politica”. Per Calvino, la Resistenza diventa una sottile linea di confine, lungo la qua¬le scegliere di stare di qua o di là e la scelta non risponde a un processo chia¬ro, razionale; entrarono in gioco, nel¬l'una e nell'altra parte, sentimenti simi¬li: ci voleva nulla per trovarsi da una parte o dall'altra, scrive Calvino. Allora nasce il problema: cosa distingue, nono¬stante l'affinità eventuale, gli uni dagli altri e rende la valutazione drasticamen¬te e insuperabilmente contrapposta? A dividere gli uni dagli altri c'è “la storia”, che dà un senso giusto, positivo, alla furia degli uni e ricaccia gli altri dalla parte sbagliata di coloro che volevano riprodurre l'oppressione e la schiavitù. Se si dimentica questo si perde il senso della storia, che non può essere ridotta ad una somma di casi individuali, ognu¬no preso per sé e tutti giustificabili. Il senso della storia è che ai partigiani dob¬biamo quello che non avevamo: libertà e giustizia, mentre se avessero avuto ragio¬ne gli altri ce ne avrebbero ancora più brutalmente privato. Se la distinzione tra le due posizioni non è mantenuta si scrive un'altra storia, ma si legge male la storia del passato.
Mario Tosti
Presidente Istituto per la Storia dell’Umbria contemporanea
giovedì 23 luglio 2009
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