martedì 19 maggio 2009

"... E allora ho capito che bisognava esserci" (Tina Anselmi, 1944) - di Romina PERNI

Con ancora in corpo la freschezza delle sensazioni che mi ha trasmesso il Convegno Nazionale delle donne dell'Anpi a cui ho partecipato oggi, cerco di fare un resoconto della giornata... che è poi un ringraziamento. Grazie a tutte le partigiane presenti che hanno raccontato le loro esperienze di vita, le lotte, le storie di quella Liberazione, purtroppo e per fortuna, sempre attuale. Nella sala in Via Frentani a Roma c'erano gran parte delle madri partigiane della nostra Repubblica legate alle altre tante presenze femminili da un filo rosso, quella della forza dell'antifascismo. Una forza che spinge ancora Giovanna Marturano, 97 anni, partigiana romana non combattente, a prendere il microfono e a dire di non farcela a stare con le mani in mano seduta in poltrona, se fuori c'è qualcosa che non va. La stessa forza che spinge Didala Ghirarducci, partigiana di Viareggio, a raccontare una storia di lotta ma prima di tutto d'amore, la storia di un marito che a 25 anni ha deciso di combattere per la libertà insieme a lei e al loro bambino e che per questo è morto. Didala è la donna che qualche tempo fa ha dovuto difendere la Resistenza a “Porta a Porta” di fronte ai nostri simpatici storici revisionisti, ma politically correct (che scherzi fa la storia...). Le partigiane Lidia Menapace e Marisa Rodano sembravano, poi, davvero delle ragazzine, per la vivacità e la determinazione del loro dire e fare. In quella sala romana si respirava l'intensità di tante presenze piene di memoria, che riuscivano a trasmettere le loro storie, e il senso e il significato di quelle storie, solo con uno sguardo, un sorriso, un sospiro. Poi, però, c'erano anche le antifasciste che hanno scelto di prendere il loro testimone. Giovanissime, meno giovani, attiviste nelle associazioni e nei partiti, parlamentari, insegnanti, semplici donne alla ricerca della “piena” cittadinanza. Insieme alle partigiane hanno parlato, per sette ore quasi di fila, del loro impegno, delle loro esperienze, si sono commosse, hanno alzato la voce. Hanno raccontato la loro indignazione di fronte al ritorno, ormai evidente e non più strisciante, di modi, linguaggi e azioni fasciste e il loro stupore per quella parte del nostro popolo che, invece, non è più nemmeno capace di indignarsi. Hanno espresso la necessità di ripartire dalla memoria delle “madri” per incidere sulla cultura del nostro paese, sull'educazione e formazione delle nuove generazioni. Hanno parlato delle contraddizioni della nostra democrazia, dove non basta un Presidente del Consiglio marito-padrone-potente-capitalista che si mette un giorno il fazzoletto dell'Anpi per sostituirlo il giorno dopo con una più comoda bandana, né gli insulti di un ministro ad una commissaria dell'Onu, definita criminale e disumana, per far perlomeno sobbalzare gli animi.
Due bisogni sono stati espressi da tutte: quello di esser unite in questa riscoperta Resistenza, unite come donne che non delegano il loro impegno a singole voci autorevoli ma isolate e unite nel valorizzare la nostra feconda diversità senza rischiare la chiusura e l'autoesclusione. E poi il bisogno di non perdere la speranza, senza la quale tutto il lavoro e lo sforzo non hanno senso. Per questo l'idea di un progetto a lungo termine, basato sul rapporto tra donne, antifascismo e democrazia, e declinato sui temi del lavoro, della pace e della riforma della democrazia, da portare avanti attraverso un metodo laboratoriale.
Il primo sentimento che sorge di fronte alla tenace resistenza che dimostrano le partigiane anziane è un leggero senso di impotenza, una specie di timore e di scoraggiamento per il futuro e per le nostre tristi sorti, un sentimento che oggi ha fatto persino commuovere anche una donna decisa e impegnata in politica da tanti anni. Ma basta soffermarsi un attimo in più a guardare quegli occhi pieni, le mani un po' tremanti, il passo instabile ma deciso nell'intenzione per convincersi che non solo possiamo, ma dobbiamo continuare a resistere, ricordando e progettando, e... ad indignarci.
Per chiudere questa breve memoria di una giornata uso le stesse parole scelte da Rosa Calipari per chiudere il suo intervento di oggi: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare” (Bertolt Brecht).
Romina Perni
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